Mi chiamo Letizia, sono una trans da anni, e sono una schiava ubbidiente, una creatura devota al piacere, una troia insaziabile che vive per essere usata, posseduta, umiliata. Il mio corpo – alto 1,70, pelle liscia, capelli lunghi neri, seno rifatto che tende il pizzo, culo sodo che implora di essere aperto – è un tempio del desiderio, e io lo offro a chi sa dominarmi. L’altra sera, verso le 23:00, ho vissuto un’esperienza che ha spinto i miei limiti oltre ogni confine, un’orgia BDSM che mi ha spezzata e ricostruita, un viaggio nell’umiliazione e nella sottomissione che ancora mi brucia dentro. È stato con una coppia BDSM, Marco e Giulia, con cui avevo avuto un solo incontro come schiava, un assaggio che mi aveva lasciato affamata di più. Mi hanno ospitato in una casa al mare, una villetta a schiera vicino a una spiaggia, e io mi sono presentata come mi avevano ordinato: sandali con tacco 12, calze autoreggenti nere, top di pizzo trasparente fino all’ombelico, senza mutandine, il cazzo che dondolava libero, e uno spolverino leggero che nascondeva appena il mio corpo offerto.
Quando Marco ha aperto la porta, i suoi occhi grigi mi hanno trapassato, un ghigno che prometteva tormento. Giulia, accanto a lui, con i capelli rossi raccolti e un vestito attillato viola, mi ha squadrato con un sorriso crudele. “Cazzo, sei proprio una troia,” ha detto Marco, la voce roca, e mi ha ordinato di togliere lo spolverino. L’ho lasciato cadere, il pizzo che sfiorava la mia pelle, i capezzoli duri sotto il tessuto, il cazzo già semi-eretto per l’eccitazione. “Fai un giro su te stessa, puttana,” ha ringhiato, e io ho obbedito, ruotando lentamente, il culo che si tendeva, i tacchi che ticchettavano sul pavimento. Giulia ha tirato fuori il telefono, riprendendomi, il flash che mi accecava. “Guarda che schifosa, perfetta per stasera,” ha detto, ridendo, mentre il video catturava ogni curva, ogni dettaglio del mio corpo esposto. Poi Marco ha preso un guinzaglio a strozzo, in cuoio nero, e me l’ha stretto al collo, un gesto che mi ha fatto tremare, la fica – il mio culetto trasformato – che pulsava di desiderio. “A quattro zampe, cagna,” ha ordinato, e io mi sono inginocchiata, il pavimento freddo contro le ginocchia, il guinzaglio che tirava, la mia anima già loro, completamente sottomessa.
Davanti a me c’era una ciotola, piena di un liquido trasparente, superalcolico, forse grappa, l’odore acre che mi pizzicava il naso. Giulia si è chinata, il suo profumo di vaniglia che mi stordiva, e ha sibilato: “Bevi tutto, troia.” Eccitata dal guinzaglio, dal loro dominio, ho abbassato la testa, la lingua che sfiorava il liquido, ma Marco mi ha afferrato per i capelli, spingendomi la faccia nella ciotola. “Fino in fondo, cagna!” ha urlato, e il liquido mi ha invaso, bruciandomi la gola, il naso, gli occhi. Ho tossito, i conati che mi scuotevano, ma lui mi teneva giù, la voce che rimbombava: “O anneghi o bevi!” Ho bevuto, disperata, il liquido che mi soffocava, il viso inzuppato, il trucco che colava, gli occhi che scoppiavano. Sentivo Giulia dietro di me, le sue mani che armeggiavano, ma ero troppo concentrata a respirare, il cuore che martellava, la grappa che mi anestetizzava la faccia. Finalmente, Marco mi ha tirato su, il guinzaglio che mi strozzava, il collo che bruciava. Ho aperto gli occhi, ma vedevo a malapena, il mascara che mi colava, la bocca appiccicosa. Marco aveva il telefono in mano, in videochiamata, e rideva: “Guardate questa puttana, pronta per voi!” Non capivo con chi parlasse, ma il pensiero di essere esposta a sconosciuti mi ha mandato una vampata di adrenalina, il cazzo che si induriva nonostante il bruciore.
Giulia mi ha spruzzato del collirio negli occhi, un gesto freddo, quasi clinico. “Devi vedere cosa ti aspetta, troia,” ha detto, e la vista è tornata, sfocata ma sufficiente. Solo allora ho sentito qualcosa nel culo: un plug con una coda nera, enorme, che mi allargava, ma non provavo nulla, il buco anestetizzato. Giulia si è chinata, il viso a pochi centimetri dal mio, e ha sussurrato: “Non senti niente, né davanti né dietro. Ho messo una crema anestetica, perché stasera devono godere tutti tranne te, schifosa.” Le sue parole mi hanno colpito come un pugno, paura e desiderio che si mescolavano, il cuore che batteva forte, il guinzaglio che tirava. Marco mi ha ordinato di sdraiarmi sul divano, a pancia in su, la testa che pendeva fuori dalla testiera, il collo esposto. Ha tirato il guinzaglio, strozzandomi ancora, e si è messo sopra di me, il cazzo turgido, venoso, che mi sfiorava le labbra. “Apri la bocca, puttana,” ha ringhiato, e ha iniziato a scoparmi la gola, lento, profondo, il cazzo che scivolava fino in fondo, le palle che mi coprivano la faccia, otturandomi il naso. Non respiravo, 4, 5 secondi di apnea, poi si sollevava, lasciandomi ansimare, prima di affondare di nuovo, sempre più duro, il suono bagnato della mia gola che echeggiava.
Giulia armeggiava con i miei polsi, poi con le caviglie, legandoli con fettucce di cuoio, ma non vedevo nulla, il culo di Marco in faccia, il suo odore muschiato che mi soffocava. Lui gemeva, il ritmo che accelerava, e appena prima di venire si è seduto sulla mia faccia, il cazzo tutto in gola, le palle che mi schiacciavano. È venuto, fiotti caldi che mi inondavano, il seme che mi scivolava in gola, ingoiandolo disperata, sperando che si togliesse per lasciarmi respirare. Finalmente si è alzato, ridendo, soddisfatto, mentre mi girava la testa, la grappa che mi ubriacava, il guinzaglio che mi strozzava. Giulia mi ha strattonato, ordinandomi di alzarmi. Barcollavo, i tacchi che vacillavano, il viso appiccicoso, il trucco colato. Mi hanno legato i polsi dietro la schiena con le fettucce, le anelle che tintinnavano, e Marco mi ha messo lo spolverino sulle spalle, chiudendolo appena. Si sono vestiti: lui con una maglietta nera e pantaloncini militari, lei con un body viola, un pareo rosa semitrasparente in vita e ciabattine. Poi Marco ha aperto la porta della villetta, e l’aria calda della notte mi ha colpito, una boccata d’ossigeno che mi rasserenava, anche se ero ubriaca, eccitata, completamente succube.
Davanti a me, sei gradini portavano alla strada, oltre la quale una stradina con una sbarra conduceva a una pineta che lambiva una spiaggia. Marco mi ha tirato per il guinzaglio, e Giulia ci ha preceduti, il pareo che ondeggiava. Camminavo male, i tacchi che affondavano nella ghiaia, le mani legate, il guinzaglio che mi strattonava a ogni passo, ogni strattone che mi faceva bagnare, il culetto che pulsava senza controllo. Passata la sbarra, il buio ci ha avvolti, e ho sentito la presenza di altre persone. Mi sono girata: tre uomini di colore, alti, muscolosi, ci seguivano, i loro occhi che brillavano nel buio. Marco mi ha strattonato, e io ho gemuto, il cazzo che si induriva, il buco che tremava. Davanti a noi, altre quattro figure, sempre scure di pelle, e Giulia li ha salutati, uno di loro che le passava qualcosa, forse denaro, ma non vedevo bene. Siamo arrivati vicino alla spiaggia, in una radura della pineta, davanti a un tronco a forma di Y rovesciata. Lì ci aspettava un gruppo, una decina di uomini, tutti africani, i cazzi già in mano, che se li menavano, eccitati, gli occhi famelici quando mi hanno vista. Mi aspettavano. La videochiamata era per loro, e io, nuda sotto lo spolverino, legata, ubriaca, ero la loro preda.
La paura mi ha travolto – erano sedici, un branco di predatori – ma Marco mi ha strattonato, ordinandomi di inginocchiarmi. Ho obbedito, le ginocchia che affondavano nella sabbia, il guinzaglio che mi strozzava. Giulia mi ha liberato i polsi, solo per legarli attorno al tronco, le fettucce che mi tagliavano la pelle. Marco mi ha allargato le gambe al massimo, legando le caviglie ai rami della Y, lasciandomi a pecorina, il culo in aria, la schiena arcuata, il buco esposto al cielo. Giulia ha strappato il plug dal mio culo, un dolore sordo che mi ha fatto gemere, e me l’ha mostrato: era enorme, largo come una palla da tennis. “Ora sei pronta per loro, troia,” ha detto, spogliandosi, il body viola che cadeva, il corpo nudo che brillava sotto la luna. Ha iniziato a spompinare gli uomini che si avvicinavano, i cazzi duri, lucidi, pronti a distruggermi.
Lo stupro è iniziato senza preavviso, un assalto brutale che mi ha spezzato. Il primo uomo, alto, con spalle larghe come un armadio, mi ha afferrato per i fianchi, il cazzo enorme, nero, venoso, che premeva contro il mio buco anestetizzato. “Puttana schifosa, ora ti spacchiamo,” ha ringhiato, la voce profonda, e ha spinto, il cazzo che mi penetrava con violenza, il preservativo che scivolava, il buco che si apriva senza che sentissi nulla, solo la pressione, l’invasione. Un altro mi ha preso la gola, il cazzo che mi soffocava, spingendo fino alle palle, le mani che mi stringevano la testa, “Succhialo, troia, o ti soffoco!” Non potevo muovermi, legata al tronco, il guinzaglio che tirava, il collo che bruciava. Mi chiamavano “cagna”, “vacca”, “schifosa”, le loro voci che si mescolavano, risate che mi trafiggevano, insulti che mi umiliavano: “Guarda questa puttana, si fa scopare da tutti,” “Non vali niente, solo un buco per i nostri cazzi.” Ogni parola era un colpo, un’umiliazione che mi schiacciava, ma il mio corpo traditore rispondeva, il cazzo che si induriva, il buco che pulsava, anche se non sentivo nulla.
Si davano il cambio, uno dopo l’altro, senza sosta, un ritmo feroce, animalesco. Il secondo uomo mi ha scopato il culo, il cazzo ancora più grosso, spingendo con colpi secchi, “Prendi, troia, ti apro in due!” mentre un altro mi riempiva la gola, la sborra che già mi colava dal naso, i conati che mi scuotevano. Giulia tappava il naso, ridendo, “Ingoia tutto, cagna, o ti soffochiamo,” e io obbedivo, la gola che bruciava, la sborra che mi soffocava. Marco riprendeva tutto, il flash che mi accecava, “Sorridi alla telecamera, puttana,” e gli uomini ridevano, sputandomi in faccia, sul culo, “Sei solo una latrina, schifosa.” Il terzo, il quarto, il quinto, si alternavano, i cazzi che mi devastavano il buco, la gola, i preservativi che si rompevano, la sborra che mi inondava la bocca, il viso, il naso. “Bevi, troia, sei nata per questo,” urlava uno, mentre un altro mi schiaffeggiava il culo, le mani che lasciavano lividi, “Guarda come si bagna, la cagna gode!” Ero un oggetto, un buco da usare, e ogni insulto – “puttana rotta”, “schifosa pervertita”, “cagna da cazzi” – mi umiliava, mi distruggeva, ma accendeva un piacere perverso, il cazzo che schizzava senza controllo.
L’anestesia iniziava a svanire, e il culo ha cominciato a bruciare, un dolore lancinante che si mescolava al piacere. Sono multiorgasmica, e ho iniziato a venire, orgasmi che mi squassavano, uno dopo l’altro, il cazzo che schizzava sulla sabbia, il buco che si contraeva, urla che si perdevano nella notte. “La vacca gode, guardate!” ha urlato uno, e gli altri ridevano, scopandomi più forte, “Troia schifosa, non meriti di venire!” Mi sputavano addosso, il muco che mi colava sul viso, sul seno, mentre Marco zoomava, “Mostra quanto sei patetica, puttana.” Poi hanno alzato la posta. Due cazzi mi sono entrati nel culo, una doppia anale che mi ha aperto in due, un dolore che mi ha fatto urlare, il buco che si strappava, il corpo che tremava. “Prendili, cagna, sei solo un buco!” ringhiava uno, mentre l’altro spingeva, i cazzi che si sfregavano dentro di me, il dolore che si trasformava in agonia. “Strilla pure, troia, nessuno ti salva,” ha detto un altro, schiaffeggiandomi la faccia, la sborra che mi colava dal mento. Ho urlato, il piacere che si mescolava al tormento, il cazzo che schizzava, il buco che bruciava, orgasmi che mi spezzavano nonostante l’umiliazione.
Il branco non si fermava, i sedici uomini che mi stupravano senza pietà, i cazzi che si alternavano, la sborra che mi riempiva, il guinzaglio che mi strozzava, gli insulti che mi martellavano: “Puttana da strada,” “Buco schifoso,” “Cagna da cazzi neri.” Uno mi ha preso per i capelli, tirando fino a strapparli, “Succhialo, troia, o ti spacco la faccia,” mentre un altro mi scopava il culo, il cazzo che pulsava, “Ti riempio, schifosa, sei solo una latrina.” Giulia rideva, masturbandosi, “Guarda come si fa usare, la cagna,” e Marco riprendeva, il telefono che catturava ogni umiliazione, ogni schiaffo, ogni sputo. Ero in trance, il corpo che si muoveva per inerzia, il dolore che si mescolava al piacere, il cazzo che schizzava, il buco che bruciava, la gola piena di sborra, il viso coperto di muco, di piscio, di vergogna.
Stava albeggiando, il cielo che si schiariva, e io ero sfinita, il corpo dolorante, il viso coperto di sborra, il trucco colato, i capelli appiccicosi. Giulia si è rivestita, ma ha preso il pareo, piegandolo a bandana. Ho pensato che volesse asciugarmi il sudore, invece me l’ha legato sugli occhi, bendandomi. “Non meriti di vedere, schifosa,” ha sibilato, e un cazzo mezzo moscio mi è entrato in bocca, spingendo fino alle palle, la testa premuta contro la sua pancia. Poi ho sentito un calore, un gusto acre: mi stava pisciando in gola, un fiotto caldo che mi soffocava. Ho tossito, ma lui mi teneva, il piscio che mi colava dalla bocca. Un altro mi ha pisciato nel culo, il buco aperto che si riempiva, poi un altro, e un altro ancora, tutti e sedici che mi inondavano, il piscio che mi scorreva sulla schiena, sulle gambe, un calore che mi pervadeva, un’umiliazione che mi faceva venire ancora, il corpo che tremava, il cazzo che schizzava, un orgasmo finale che mi spezzava.
Ho sentito Giulia dire: “Arriva qualcuno, sono già le 7:00!” e tutti si sono allontanati, lasciandomi lì, legata al tronco, bendata, il corpo inzuppato di piscio e sborra, il culo aperto, dolorante, la gola bruciata. Ero sola, umiliata, distrutta, ma viva, il cuore che batteva, il piacere che ancora mi scorreva nelle vene. Dopo un tempo che sembrava eterno, ho sentito un guaito, poi una lingua calda, ruvida, che mi leccava il culo, il buco aperto, ancora bagnato di piscio e sborra. Era un cane, un pastore tedesco, che mi annusava, la lingua che scavava, un contatto che mi ha fatto gemere, un misto di vergogna e piacere, il cazzo che si induriva di nuovo. Per cinque minuti, il cane ha continuato, il suo muso che premeva, la lingua che mi invadeva, e io, legata, bendata, non potevo fare nulla, il corpo che tremava, l’umiliazione che mi consumava, ma anche un’eccitazione perversa che mi faceva bagnare.
Poi una voce, dolce, con un accento francese, ha spezzato il silenzio. “Mon Dieu, cosa ti è successo?” Era la padrona del cane, una ragazza, non una nudista, che passeggiava nella pineta. Mi ha slegato, le mani gentili che scioglievano le fettucce, e ha rimosso la benda, rivelando un viso giovane, capelli biondi, occhi azzurri pieni di preoccupazione. “Vieni, ti aiuto,” ha detto, sorreggendomi. Ero un disastro: il top di pizzo strappato, ridotto a un reggiseno improvvisato, il corpo coperto di piscio e sborra, i capelli appiccicosi. Mi ha dato il suo pareo rosa, semitrasparente, per coprirmi, ma copriva solo il davanti, lasciando la schiena e il culo nudi. Scalza, con i tacchi in una mano e la borsetta nell’altra, ho seguito lei e il cane, barcollando, verso il parcheggio dove era il suo camper, a un centinaio di metri dalla pineta. Erano le 9:00 di mattina, e la spiaggia si stava riempiendo di avventori: famiglie, coppie, gruppi di amici, che mi guardavano, ridacchiavano, sussurravano. “Guarda quella puttana,” ha detto qualcuno, e io, all’inizio, mi vergognavo, il viso che bruciava, gli sguardi come spilli sulla pelle. Ma poi, il mio lato esibizionista ha preso il sopravvento. Ogni occhiata, ogni risata, si trasformava in desiderio, immaginavo le loro lingue sul mio corpo, le loro mani che mi afferravano, e il cazzo mi si induriva, il buco che pulsava di nuovo, l’adrenalina che mi mandava in estasi.
Arrivata alla strada, le auto passavano, rallentando, i clacson che suonavano, i finestrini che si abbassavano. “Troia!” ha urlato un uomo, e io sorridevo, il cuore che batteva forte, il corpo che si offriva a ogni sguardo. A cinquanta metri dal camper, il parcheggio era ghiaiato, e la ragazza, che si chiamava Claire, mi ha detto: “Metti i tacchi, o ti farai male.” Mi sono chinata, infilando i sandali, il pareo che scivolava, il culo nudo esposto. Proprio mentre mi rialzavo, il pareo è caduto, impigliandosi in un tacco, e si è strappato in due, lasciandomi nuda, il reggiseno che copriva appena il seno, il cazzo che dondolava, il buco aperto che luccicava. Ho provato a raccoglierlo, ma era inutile, il tessuto era distrutto. “Merde,” ha detto Claire, ridendo piano, ma mi ha preso per mano, trascinandomi avanti. Gli ultimi trenta metri li ho fatti nuda, sotto gli occhi di tutti: uomini che fischiavano, donne che scuotevano la testa, ragazzi che scattavano foto con i telefoni. “Che schifo,” ha detto una donna, ma io godevo, l’adrenalina a mille, il cazzo duro che schizzava pre-sperma, il buco che pulsava, ogni sguardo che mi marchiava, un’umiliazione che si trasformava in piacere, il mio essere esibizionista che esplodeva. Immaginavo le loro bocche sul mio corpo, le loro mani che mi aprivano, e venivo, senza toccarmi, un orgasmo che mi scuoteva, le gambe che tremavano mentre raggiungevo il camper.
Claire mi ha fatto entrare, chiudendo la porta, e mi ha fatto lavare, l’acqua calda che scioglieva il piscio, la sborra, il trucco, il sudore. Mi ha offerto un tè, avvolgendomi in una coperta, e mi ha ascoltato, senza giudicare, mentre le raccontavo, tra le lacrime, cosa era successo. “Sei forte,” ha detto, accarezzandomi i capelli, e quelle parole mi hanno salvato, un raggio di luce in quell’abisso. Mi ha dato una maglietta e un paio di pantaloncini, e mi ha accompagnato a una stazione degli autobus, pagandomi il biglietto per tornare a casa. “Non lasciare che ti spezzino,” ha sussurrato, prima di salutarmi, e io ho annuito, il cuore pieno di gratitudine.
Tornata a casa, il mio corpo era un campo di battaglia, lividi sul collo, graffi sulle cosce, il culo che bruciava a ogni movimento. Ma dentro di me, qualcosa era cambiato. Ero stata usata, umiliata, spezzata, ma avevo goduto, avevo abbracciato la mia sottomissione, avevo vissuto il mio desiderio più profondo. Mentre scrivo, il cazzo mi si indurisce al ricordo, il cuore che batte forte. Sono Letizia, la schiava ubbidiente, la troia insaziabile, e so che lo rifarei, ancora e ancora, per sentire quel fuoco, quella distruzione, quella liberazione.